"Il colombo impaurito" di Raffaele Aufiero Rec. di V. Sanfilippo



PRIMA CHE (CI?) UCCIDANO ("IL COLOMBO IMPAURITO" DI R.AUFIERO AL TORDINONA DI ROMA)
Scritto da Vincenzo Sanfilippo

Teatro Lo spettatore accorto

PRIMA CHE (CI?) UCCIDANO

"Il colombo impaurito" ( per Hrant Dink) di Raffaele Aufiero.Con Renato Capitani (Talete).Pierluigi Littera ( Giornalista).Teodora Nadoleanu (Fanciulla).Regia di Renato Capitani.Prod. Studio 12 di Isabella Peroni. Roma, Teatro Tordinona

Un’immensa, tragica, oscura forza intollerante e criminale determina “leggi” proprie, sostituendosi alla legalità delle leggi che gli Stati Comunitari non sempre riescono ad imporre. E se qualcuno cerca legittimamente di rappresentarne leggi e giustizia, coloro che gestiscono il mal’affare tentano di corromperlo; altrimenti, se non è corruttibile, lo uccidono. Non c’è via di mezzo. Appena due anni fa (19 gennaio 2007) veniva assassinato, a Istanbul, il giornalista armeno Hrant Dink, editore del settimanale bilingue “Agos”, voce libera di una Turchia contemporanea. Il testo di Aufiero, rappresentato alla Rassegna “Schegge d’autore” (Roma, Teatro Tordinona) è l’evocazione scenica dell’omicidio del personaggio, turco di origine armena, il quale mentre presagiva la sua fine, si definiva “un colombo impaurito”. Drammaturgia di impegno civile, quella di Raffaele Aufiero, in quanto ingloba il grande spazio della informazione e della cultura, nel momento in cui il crimine organizzato nei suoi tre livelli “ideatori, mandanti e sicari” non sopprime solo il giornalista politicamente esposto (per la sua vocazione alla giustizia, alla comprensione, alla pacificazione, alla tolleranza) ma diventa crimine contro l’informazione, contro l’umanità, ovvero un crimine orrendo commesso contro tutti coloro che credono negli stessi valori che Dink ha propugnato e sostenuto con sacrificio.

Lo spettacolo, ben costruito registicamente da Renato Capitani sulla geometria di una vera e propria triangolazione scenica, si avvale dell’interpretazione di Pierluigi Lettera, espressiva presenza interpretativa nel ruolo per lui insolito e nuovo di un intellettuale votato al sacrificio, consapevole e rassegnato, lucido nella sfida quanto presago della tragedia che incombe; di Teodora Nadoleanu, paragonabile ad una Kore greca, che sfidando e respingendo le tentazioni imposte da una implicita quanto legittima e intrigante seduzione riesce a dare sostanza tragica e spessore scenico all’idea della sofferenza eterna, quella delle creature più esposte; e dello stesso Renato Capitani che incarna con eterea evanescenza la sapiente figura di Talete e si produce in un assolo finale potente, grumoso, allusivo (per sua terribile simbologia). Le parole pronunciate diventano, come dice il giornalista, “estensione della natura nella coscienza di ogni uomo. Attraverso di essa gli uomini diventano “umanità”. Dal quale assioma scaturisce il carattere della “scrittura” scenica nel senso etimologico, finalizzata a dare alla parola quel peso e quel movimento che la fanno diventare enucleante metafora di senso ed emozioni. Le parole del testo, depositarie di dolore e di speranza per l’impegno civile profuso contengono il seme etico e pedagogico della teatralità incorporata nel linguaggio.

Esso non racconta il tempo della cronaca, ma colloca l’assassinio del giornalista dentro il tempo di una “parabola” (in senso evangelico), scenograficamente metafisico, attraverso lo sfondo prospettico dell’imponente Moschea Blu di Istanbul Di fronte alla grande finestra scorgiamo la figura del giornalista mentre colloquia con il filosofo Talete. L’intreccio dei dialoghi, rimanda alla continuità dell’esistere e al divenire successivo e continuo dei giorni dell’umanità: “ La storia è già passata di qui, su questa terra è già passata. È vero Talete? ”. Sono interrogativi semplici e detonanti che offrono possibilità di riflessione alla ragione e all’emozione di chi ascolta; ma al contempo parole buie, gravide di presagi: “E a te fanciulla che ti affacci alla vita e alla speranza vengo a narrarti l’abominio”. A questo punto Talete racconta, con macabra (senechiana) descrizione la fine del colombo impaurito, mentre presagisce l’ombra del famelico e rapace gabbiano che dilania e sventra la colomba. Qui la recitazione sommessa lambisce la sfera del supplizio consentendo alla scarnificata parola una sorta di “autonomia” semantica, che di per sé è dramma: dramma di sillabe e visioni cruente, ben visualizzate con ritualità di gesti da Teodora Nadoleanu.

Il messaggio di Aufiero è chiaro. Certo bisogna avere il coraggio di condannare qualsiasi violenza (quella compiuta contro Mauro Ristagno è “fresca” di sentenza, ma dopo vent’anni dalla sua fisica eliminazione, a Trapani), sia essa di matrice politica - ricordiamo Casalegno e Tobagi - che di matrice mafiosa - che ha spento le migliori menti di De Mauro e Fava. Pur se la suddivisione è spesso virtuale, da mera cronaca giudiziaria. E inutile indignarsi, quindi, se noi gente di “malaffare e spettacolo” si vien trattati, etichettati come giullari preposti a sollazzare platee ridanciane. Troppo spesso meritiamo di esserlo. E invece sarebbe tempo che imparassimo ad essere padroni del nostro destino professionale, specie quando esso coincide con le grandi cause civili e umane delle idee, che attraverso le parole si fanno drammaturgia e scrittura scenica .
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